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La leggenda del Gigiàt

FOTO GIOVANNI MENESATTI ©

17/11/18 - Val Masino

Hai mai sentito parlare del Gigiàt?

Fra gli esseri mostruosi e leggendari di cui la fantasia contadina ha popolato selve, boschi ed alpi, il Gigiàt della Val Masino merita sicuramente un posto d’onore. La sua figura è, però, abbastanza indeterminata, ed unisce in sé tratti comico-grotteschi ed orripilanti. 

Il problema sta nelle fonti: ben pochi possono affermare credibilmente di averlo visto, e coloro che ne parlano lo descrivono in termini diversi. Le più accreditate fonti sono sicuramente le guide alpine, gli storici gestori dei rifugi di Val Masino, che da oltre un secolo narrano le sue gesta nelle serate di veglia. 

Secondo alcuni l’habitat estivo dell’animale è rigorosamente circoscritto alle valli Porcellizzo, del Ferro, Qualido e di Zocca, ma la questione è controversa, perché altri lo estendono anche a sud-ovest, cioè alla valle dell’Oro, della Merdarola e di Spluga, e ad est, cioè alle valli Torrone, Cameraccio e di Preda Rossa, affermando che i Corni Bruciati rappresentano il limite orientale del suo territorio. Pare abbastanza certo che d’inverno scenda sul fondovalle, anche se, per la sua grande rapidità, non viene mai avvistato, se non è lui che lo vuole.

 Non è certissimo neppure di che animale si tratti: probabilmente è un incrocio fra un caprone ed un camoscio (o stambecco), dal pelo lunghissimo (che si fa tosare ogni primavera) e dalle dimensioni gigantesche, tanto da poter attraversare un’intera valle con pochi balzi. L’aspetto più enigmatico di tutta la faccenda, però, è che, nonostante le sue dimensioni, ben pochi riescono ad avvistarlo, fondamentalmente solo le guide alpine.

Altri dicono che non sia poi così gigantesco. In ogni caso il suo identikit ce lo rappresenta con una testa di dimensioni sproporzionate rispetto al corpo, con un naso schiacciato e lunghe corna; le zampe anteriori sono fornite di unghioni, le posteriori di zoccoli prensili; il pelo lungo ed arruffato emana un insopportabile puzzo di caprone selvatico. 

Tutti sono d’accordo sulla sua straordinaria agilità: in alta montagna si muove con una destrezza ed una sicurezza senza eguali, salta da una cengia all’altra, volteggia sui ghiacciai, corre verso i precipizi e si ferma bruscamente proprio sul ciglio, sembra farsi beffe delle leggi della gravità e dell’equilibrio. Unisce alla destrezza un’incredibile resistenza: non è mai stanco, non è mai fermo.

 Un episodio, fra tanti, può darci un’idea di come sia veramente il re di queste montagne.

Lo raccontò, mito che racconta un mito, la guida alpina Giacomo Fiorelli, custode del rifugio Gianetti agli inizi del novecento. Egli soleva scalare le montagna a piedi nudi, anche con le condizioni ambientali più severe. Una volta gli capitò di attraversare l’ultima cengia prima della vetta del pizzo Badile, che era un po’ come la sua seconda casa. Ma fu tradito dal ghiaccio, e scivolò. Sarebbe precipitato, se non fosse riuscito ad aggrapparsi ad uno spuntone di roccia. Si ritrovò, così, sospeso sul precipizio, senza potersi trarre d’impaccio, perché non aveva altri appigli per mani e piedi. Venne, allora, il gigiàt; ne sentì l’odore prima ancora che il rumore degli zoccoli rapidi e sicuro su qualunque terreno; venne e si pose appena sopra di lui. Sentì il suo lungo vello carezzargli il volto contratto per la tensione. Fu un attimo: lasciò lo spuntone e si aggrappò con tutto il peso del corpo al suo pelo, tirandosi su con la sola forza delle braccia. Era salvo, e doveva la sua salvezza all’animale, che però, prima ancora che avesse il tempo di realizzare quanto era accaduto, si era sottratto alla sua vista.

Da questo, e da molti altri episodi, si può evincere che la natura del gigiàt è profondamente buona. Ma la cosa non è così semplice: gli attribuiscono pure la terrificante la consuetudine di integrare la sua dieta, fondamentalmente vegetariana, con qualche pasto a base di escursionisti o alpinisti solitari, sorpresi ad addentrarsi nei suoi remoti territori. Forse perché il nome che gli hanno dato (come tutti i nomi in "-àt" suona, infatti, spregiativo) l'ha profondamente offeso e ancora l'offende. 
Come conciliare questi due aspetti? Una chiave di lettura della sua natura apparentemente contraddittoria ce la fornisce un murales ben visibile a San Martino, su una casa che si trova, sulla destra, al suo ingresso. Vicino alla rappresentazione fantastica dell’animale, si legge: “El Gigiat, nume tutelare de esta splendida valle. Buono con lo homo che natura rispetta, mala sorte a chi lo trovasse non rispettoso. Onori et gloria a chi el vedesse e notizia ne desse…”. Dunque, animale fantastico sì, ma non bestia, anzi, quasi espressione di un’arcaica saggezza e giustizia, che non fa male al buono, ma punisce il malvagio. Per questo è non solo temuto, ma anche rispettato: è ancor viva la consuetudine di lasciare, d’inverno, un po’ di fieno nei prati, perché possa sfamarsi.

Occorre però dar conto, per amore d’onestà, anche delle versioni più scettiche della storia del Gigiàt. Si dice che all'origine della credenza del Gigiàt vi sia una colossale burla, ai danni di un ricchissimo e stravagante conte morbegnese, che si vantava di aver raccolto nella sua dimora tutto quanto di più curioso e raro la terra di Valtellina potesse offrire.

Autori della burla due abitanti di San Martino, che gli dissero di aver visto, nei pressi del pizzo Badile, un animale spaventoso, enorme, dal pelo caprino lunghissimo e nero e dalle narici vomitanti fiamme. Il conte arse allora dal desiderio di poter arricchire la sua raccolta di rarità catturando quell'animale prodigioso, ed anticipò una cospicua somma di denaro ai due, purché si impegnassero a catturarlo.

E' facile intuire quel che accadde: del Gigiàt e dei due non si vide più neppure l'ombra, e da allora sono trascorsi due secoli buoni, senza che nessuno abbia saputo portare prove attendibili sull'esistenza del fantomatico animale. Questo dicono gli scettici. 
A questi si contrappongono coloro che difendono a spada tratta l’esistenza del miticoo animale. Costoro affermano che, nel secolo scorso, ne venne catturato un esemplare, che tuttavia non sopravvisse molto alla cattività: portato a Morbegno per essere esibito alla cittadinanza incredula, non tollerò il clima del fondovalle e morì di raffreddore. Fine tristissima per un campione del clima più rigido e severo dell’alta montagna! 

Una seconda versione parla non di morte, ma di liberazione: l’animale, infatti, si mostrò del tutto insofferente alla cattività, si ribellò, cominciò a tirare calci a destra e a manca, inducendo le guide alpine che l’avevano portato a Morbegno a restituirlo ai suoi monti. Sì, perché forse il tratto più caratteristico del gigiàt è il suo profondissimo amore per la libertà, la sua vitalità, il suo bisogno rimuoversi, la sua natura inquieta e anche dispettosa: pare, infatti, che ami partecipare alle danze delle marmotte ed oscillare sui rami degli alberi con gli scoiattoli.

 Dopo tanti “si dice”, ecco un fatto certo ed attestato. Al Carnevale di Morbegno del 1956 sfilò, infatti, fra la sorpresa e l’ilarità di tutti, un esemplare di Gigiat incatenato e condotto da due abitanti di S. Martino, che volevano, così, assestare un sonoro schiaffo morale a tutti quei Morbegnesi che, prendendo spunto dall’episodio sopra narrato, andavano dicendo, dei “Valöcc” (cioè degli abitanti di Val Masino), che sono persone inaffidabili.

Ecco, costoro dovevano ora ricredersi: alla fine l’animale, catturato, era stato portato a Morbegno, come qualche generazione prima era stato promesso. Si trattava, in realtà, di un asino ricoperto di pelli, condotto da un cacciatore con il fucile di legno e da un aiutante, che tentò, anche, di mungerlo. Fra le risate di tutti, la mungitura non riuscì, perché il freddo aveva congelato il latte nelle mammelle (ovviamente posticce). Senza scomporsi, però, l’aiutante corse a comperare del latte appena munto e lo inserì nelle finte mammelle: alla fine anche il latte del Gigiat venne, così, pubblicamente munto.

Non è, però, questa l’unica sorpresa che il Gigiàt ha in serbo. Di lui si parla, infatti, anche al di fuori dei confini della Val Masino, ed in particolare nella vicina Costiera dei Cech, in diversi altri luoghi della Valtellina ed in Valsassina. Uscita dai severi bastioni granitici della Val Masino, la sua figura assume tratti più vaghi, che rimandano all’antichissimo mito del dio Pan, connesso con l’inesauribile fecondità della natura ed il ciclo che sempre si rinnova della vita.

Così, si dice, il Gigiat non è più grande di 40-60 cm., ama far udire il suono del suo zufolo senza farsi vedere, si nasconde anche dietro ricci e foglie di castagno in autunno, è un essere a metà fra l’uomo ed il capro, che lotta, per scherzo, con torelli e camosci, o forse anche un folletto burlone e bizzarro, che danza con le marmotte ed ama il dono delle castagne più belle e delle caciotte che i contadini lasciano esposte sull’uscio di casa per lui.

Si pensa a lui nel tempo dell’allegria, come la vendemmia: qualche grappolo, fra i più belli, viene lasciato sui filari, come omaggio che il gigiàt apprezza molto. 
E allora è forse anche un ringraziamento quella risata cristallina che, nel torpore del meriggio, si sente, qualche volta, squillante ed improvvisa, fra l’uscio ed il cortile, dietro una porta o un castagno. Si va, allora, a guardare chi è. Non vi vede nessuno. Ma si avverte che il gigiàt è stato qui, presenza propizia foriera di abbondanza e gioia di vivere.

Tratto da http://www.paesidivaltellina.it

 

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